Domenica, 11 Maggio 2025 Abruzzo

SLOW FOOD, “NON PUÒ ESSERE PRESIDIO, CARNE ESTERA DA ALLEVAMENTI INTENSIVI”

“L’arrosticino attuale non può essere considerato un cibo slow: serve una visione sul tema che sostenga gli allevatori locali, valorizzi le filiere corte e il benessere animale, e tuteli l’ambiente, le risorse e le comunità del territorio”.

A sostenerlo è slow food, a seguito del dibattito emerso sui social network, sollecitato anche dalla stampa locale dopo il successo dell’evento “Arrostiland” del 21 aprile scorso a Torre de’ Passeri, con la bellezza di circa 25 mila presenze.

Ma ancor prima, sull’arrosticino si sta giocando una partita molto importante, quella dell’iter per il riconoscimento, perorato da Coldiretti e sostenuto con forza dal capogruppo di Fdi, Massimo Verrecchia, della Denominazione di origine protetta (Dop), che prevede che la materia prima sia rigorosamente allevata e macellata in Abruzzo o in aree limitrofe legate da fattori storici economici e culturali, come le vie della transumanza. A breve sarà completato lo studio affidato dalla Regione Abruzzo all’Istituto zooprofilattico sperimentale di Teramo, per definire le caratteristiche organolettiche dell’arrosticino a denominazione di origine protetta. A quel punto la partita si sposterà al ministero dell’Agricoltura per il riconoscimento.

Confagricoltura e il potente settore dell’industria di trasformazione, che macina un miliardo di fatturato con 80 imprese e 12mila addetti, hanno invece ottenuto parallelamente l’impegno ad istituire l’Indicazione geografica protetta (Igp), per la quale la carne di pecora basta trasformarla sul territorio regionale, con un determinato disciplinare, e si può usare anche carne proveniente dall’estero, ad oggi da Francia, Romania, Spagna, Irlanda e Paesi dell’Est. L’importante è infatti blindare il brand “arrosticino” e legarlo indissolubilmente all’Abruzzo, prima che qualcuno lo scippi. Ad oggi del resto, dall’estero arrivano ben 700.000 capi trasformati in Abruzzo per produrre arrosticini, mentre in regione  vengono allevati solo 150.000 capi ovini, di cui però 130.000 sono utilizzati solo a scopo di latte.

Questo insomma ad oggi lo scenario. A seguire la presa di posizione di Slow Food.

“Come associazione regionale, riteniamo opportuno offrire un chiarimento, soprattutto rispetto alla possibilità che l’arrosticino diventi un Presidio Slow Food. Come a molti noto, Slow Food valuta le produzioni alimentari sulla base di tre criteri fondamentali: buono, pulito e giusto, diventati gli assi portanti dell’intera filosofia connessa alla chiocciola rossa. L’arrosticino attualmente in commercio, così come prodotto, distribuito e consumato oggi, non risponde a nessuno di questi tre principi”.

Spiega dunque Slow food: “non è buono: l’attuale sistema produttivo legato all’arrosticino non è equo né sostenibile. La narrazione lo presenta come simbolo dell’identità abruzzese, ma la realtà è ben diversa: la carne utilizzata proviene spesso da filiere lunghe e globalizzate, slegate dal territorio, e non soddisfa criteri qualitativi che vadano oltre l’aspetto gustativo. Questi arrosticini hanno costi esterni elevatissimi: in termini ambientali (trasporto da grandi distanze), etici (benessere animale compromesso da allevamenti intensivi) ed economici (pressione al ribasso sui piccoli produttori). Non è, quindi, un prodotto buono nel senso profondo e integrato che promuoviamo”.

L’arrosticino non è nemmeno “pulito”: “la produzione attuale ha un impatto ambientale significativo. Le carni sono trasportate attraverso filiere lunghe e complesse, con elevata emissione di gas serra. Provengono da allevamenti intensivi che nulla hanno a che fare con i sistemi estensivi e rigenerativi, come invece intendono essere gli allevamenti slow promossi dalla nostra associazione. Originariamente, l’arrosticino nasceva per valorizzare carni ovine “a fine carriera”, in una logica di economia circolare e recupero: una distanza abissale dal modello industriale odierno”.

Infine l’arrosticino non è “giusto”: “il sistema attuale penalizza i produttori locali, che rappresentano l’anello più debole dell’intera catena. Il prezzo riconosciuto agli allevatori non è equo e non valorizza il lavoro agricolo-pastorale. Questo meccanismo disincentiva le giovani generazioni a intraprendere attività zootecniche sostenibili, aggravando l’abbandono di economie tradizionali su base locale e delocalizzabili. In queste condizioni, la pastorizia abruzzese perde valore e attrattività, soprattutto per le giovani generazioni, sostituita da una filiera ingiusta e squilibrata, dove il lavoro agricolo continua a rimanere l’ultima ruota”.

Alla luce di quanto descritto, sostiene Slow food,  “è evidente che l’arrosticino confezionato a livello industriale non potrebbe mai essere considerato un Presidio Slow Food. Come suggerito dallo stesso termine utilizzato per classificarli, i Presìdi nascono per tutelare produzioni in via di estinzione, legate a territori e per far rimanere attive tradizioni e pratiche che rischiano di scomparire. L’arrosticino, invece, sembra “godere di ottima salute commerciale”: milioni di pezzi prodotti e consumati ogni anno, ampia diffusione commerciale, presenza costante nei menu di ristoranti e sagre. Non solo: si tratta di un prodotto relativamente recente, che non affonda le sue radici in una tradizione antica e consolidata. Non è un sapere da salvaguardare né un alimento a rischio scomparsa. Al contrario, si inserisce pienamente nelle dinamiche del fast food territoriale: veloce da preparare, da consumare, da replicare ovunque, con poche attenzioni alla qualità complessiva della filiera”.

Seguono le critiche ad eventi come quello di Arrostiland.

“Un evento che concentra 25.000 persone in un solo giorno in un piccolo centro solleva più di un interrogativo, soprattutto se si confronta con il recente allarme per l’arrivo di 10.000 persone a Roccaraso da Napoli, subito bollato come “overtourism”. Cosa cambia? Il numero o la narrazione? Se 10.000 persone a Roccaraso destano preoccupazione, perché 25.000 a Torre de’ Passeri dovrebbero diventare un successo da celebrare? Forse ci sfugge qualcosa, ma il ragionamento sembra perdere coerenza. Come Slow Food, preferiamo eventi diffusi, che ridistribuiscano valore e presenze lungo l’arco dell’anno, anziché puntare tutto su un picco di consumo concentrato. Preferiamo forme di turismo rispettose dei territori, dell’ambiente, delle comunità locali, che valorizzino davvero le terre alte creando forme di equilibrio tra l’attività dell’uomo e la natura”

Infine le proposte di Slow food: “esistono due approcci alla valorizzazione del cibo tipico: uno lo collega a un sistema di produzione locale, fondato su economia, cultura, paesaggio e relazioni sociali e costituito da contratti corti di filiera, l’altro lo eleva a strumento di marketing. Slow Food ha da sempre scelto e sostenuto il primo: il cibo come diritto, come patrimonio collettivo, come leva di giustizia ambientale e sociale, come asse di rigenerazione territoriale. La “torre” sta in piedi se stanno bene tutti i suoi “torresi”, 365 giorni l’anno: a nostro avviso il benessere della comunità non si può misurare in base ai numeri di un evento, ma rispetto alla qualità della vita, del lavoro e della sostenibilità sociale che riesce a garantire nel tempo”.

“Per questo occorrono politiche integrate e visioni focalizzate sul tema, tese a garantire i diritti di accesso e di vivibilità di un territorio, la salvaguardia della biodiversità, il sostegno al lavoro dei produttori nei territori, specialmente quelli montani dove l’economia locale è più fragile – prosegue Slow food -. Allora ribadiamo con forza che l’unico Presidio che ci consentirebbe di sposare una politica buona per la trasformazione dell’arrosticino in uno “slow food” è quello dei prati stabili e pascoli, luoghi sani, in cui le pecore possono trascorrere la loro vita evitando che il bosco continui ad avanzare, brucando e nel contempo consentendo alla ricchissima biodiversità del pascolo di riprodursi, mitigando così l’impatto climatico. Valorizzando una filiera corta, che favorisca la stabilità ambientale e il benessere degli animali”.

“Per questo, come Slow Food Abruzzo riaffermiamo il nostro impegno per un cibo buono, pulito e giusto per tutte e tutti, riconoscendo che ciascuno è libero di agire secondo i propri valori, ma ribadendo con fermezza quali sono i nostri”, conclude Slow food.