Lunedì, 17 Giugno 2013 Editoriali

Ci vorrebbe un partito

Editoriale di Claudio Sardo pubblicato su L’Unità di ieri

di Claudio Sardo

Ci vorrebbe un partito per tenere insieme la governabilità difficile di oggi con l’ambizione, anzi con il progetto di un cambiamento reale. Ci vorrebbe un partito per reagire al luogo comune della società civile contrapposta alla politica. Ci vorrebbe un partito per opporsi alla desertificazione dei corpi intermedi, alla solitudine degli individui, allo strapotere di oligarchie e tecnocrazie. Ci vorrebbe un partito per dare voce alla sofferenza sociale, agli interessi non rappresentati, alla domanda di diritti e di uguaglianza, e al tempo stesso costruire con queste forze un percorso nelle istituzioni, in modo che ne nascano doveri, autonomie, equilibrio di poteri. Ci vorrebbe un partito per trasformare la protesta in una proposta, la moltitudine in una comunità, il consenso in una pratica di buon governo. Ci vorrebbe un partito per evitare che le necessarie riforme istituzionali producano strappi alla Costituzione, e siano invece aggiornamento e rilancio dei suoi principi fondativi.
Stiamo parlando del partito della sinistra italiana ed europea. Riuscirà il Pd ad essere all’altezza della sfida storica che ha davanti? Riuscirà a non deludere le aspettative dei cittadini che – pur in un contesto di sfiducia e malessere crescenti – lo individuano oggi come l’unico soggetto politico capace di tenere unita l’Italia e di guidarne, sebbene condizionato, il governo centrale e quelli locali? Riuscirà a fare del suo congresso l’occasione di un rinnovamento e di una ripartenza, senza farsi catturare da personalismi e correntismi? Sono le domande che pongono i nostri lettori e che preoccupano il popolo del centrosinistra. Le recenti elezioni amministrative hanno confermato le potenzialità, o meglio, le responsabilità del Pd come elemento-cardine della sinistra. Ma hanno anche evidenziato i limiti e i pericoli di questa drammatica stagione: a partire dall’enorme bacino di astensioni, che non rappresenta affatto la normalità di un Paese secolarizzato, ma un forte rischio di instabilità che può travolgere i capisaldi del sistema democratico.

Il Pd è tuttora il solo a chiamarsi «partito». Eppure non basta per esserlo davvero. Alle elezioni presidenziali ha offerto il tremendo spettacolo di un non-partito, di uno «spazio» ingovernabile che ha lasciato i suoi elettori privi di una rappresentanza efficace. Certo, non è facile vivere soli. A destra, comprensibilmente, c’è chi teorizza la fine dei partiti per ragioni di classe, e per l’illusione di tutelare meglio alcuni corposi interessi. Ma il paradosso italiano è che anche a sinistra c’è chi fantastica di un mondo migliore senza partiti. Si bollano i partiti come una sovrastruttura corrotta e incapace di contenere le nuove soggettività: e si dimentica che in Europa tanto più funzionano i partiti, quanto più si produce coesione sociale. Purtroppo, paghiamo gli effetti della lunga egemonia liberista sulle nostre società in declino: e il declino italiano è drammaticamente il più pesante d’Europa.
Il Pd è solo anche plasticamente: Grillo e Berlusconi, competitori nel tripolarismo, sono di fatto leader extraparlamentari. Il distacco del Cavaliere potrebbe essere ulteriormente sanzionato in sede giudiziaria. Ma non è una solitudine virtuosa. Il Pd è nato come un ponte verso un nuovo sistema politico. E ora che la crisi di sistema è esplosa, questa ragione fondativa del Pd è diventata una questione nazionale. Il Pd deve lavorare sulle riforme, deve dare un esito positivo all’opera di manutenzione della Costituzione. I partiti – democratici, rinnovati, trasparenti – devono riconquistare autorevolezza nelle istituzioni, come strumento di rappresentanza da un lato e di buon governo dall’altro. Questo è possibile solo se si toglie dal campo, al più presto, ogni ipotesi presidenziale. E se si scongiura quel rischio plebiscitario, che pure potrebbe scaturire da alcune torsioni del modello del premierato.

Per rafforzare la democrazia decidente e la figura del premier, aumentando la stabilità dei governi, non è necessario ricorrere all’«unto del Signore», né ridurre le elezioni a competizioni mediatiche tra leader. I partiti non sono la prateria di capi carismatici, né devono ridursi a comitati elettorali. Sono un corpo collettivo, in cui il leader ha certo acquisito un valore assai maggiore che nel passato, ma che non può spezzare il nesso tra interessi e progetto, tra pluralità e sintesi, tra storia e innovazione. Nel lavoro di riforma il Pd deve favorire anche la crescita democratica dei suoi avversari. Deve aiutare chi nel centrodestra vuole costruire il dopo-Berlusconi. E chi nel movimento di Grillo vuole dare un senso alla ribellione contro l’autoritarismo mediatico. Tutto ciò è parte della sua funzione nazionale. E anche per questo l’esito presidenziale, o comunque plebiscitario, va contrastato con ogni forza.

Nella strada verso il congresso, il Pd dovrà spingere il più possibile il governo Letta verso obiettivi di riforma e di rilancio dell’occupazione e dello sviluppo. I ricatti di Berlusconi sono inaccettabili e sia Letta che Epifani hanno la capacità di respingerli. Se il Pd fosse fuggito alle proprie responsabilità dopo il tonfo delle presidenziali, non avrebbe vinto le amministrative: sarebbe morto sotto le macerie e oggi avremmo un bipolarismo demenziale Berlusconi-Grillo. Il Pd non può sottrarsi alle responsabilità di governo, né al dovere di progettare fin d’ora un vero governo di cambiamento. È una contraddizione: non c’è dubbio. Ma è anche la ragione della centralità del Pd. O sarà capace di reggere la sfida, o soccomberà. Non basterà affidarsi a un capo solitario. E per il congresso è meglio aprire il confronto sulle idee prima che sui nomi.