Sabato, 1 Settembre 2012 Vasto

Fabbraio 2005: quella presenza del Cardinale Carlo Maria Martini a Vasto

Aveva tenuo una magistrale conferenmza nell'ambito della terza Assemblea Sinodale

Era il 3 Febbraio del 2005 e nella Chiesa di Santa Maria Maggiore in Vasto, su invito di mons. Bruno Forte, Il Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo Emerito di Milano, veniva a parlare al popolo di Dio nell’ambito della terza assemblea sinodale imperniata sul tema «La parola di Dio nella vita della Chiesa: a 40 anni dalla Dei Verbum».
Una lezione vibrante, ancora presente nelle menti di quanti ebbero la fortuna di ascoltarla.
A distanza di qualche tempo da quell’evento, l’Arcicescovo di Chieti-Vasto, mons. Bruno Forte, aveva ripreso quei temi trattati dal Cardinal Martini rilasciato a “Il Foglio” la seguente intervista:

“Non è facile decifrare la stagione che sta vivendo la Chiesa italiana. C’è chi parla di una Chiesa paurosa, che ha paura o fa paura non è ben chiaro. Chi la vede rattrappita su se stessa, chi la dipinge aggressiva più che mai… “Questa analisi è fondata solo in parte. Certamente di fronte ai mutamenti epocali che stiamo vivendo, di fronte a questa società liquida, come la definisce Zygmunt Bauman, in cui sembra che non ci siano più certezze e appigli, dove tutto sembra legato all’effimero e al provvisorio, ci sono nella Chiesa sentimenti di paura. Alcuni si domandano cosa sta succedendo. Dov’è quel bel mondo antico in cui la Chiesa era la cittadella delle certezze all’interno di una società compatta? Alcuni di fronte alla semplice testimonianza delle convinzioni profonde e della verità che la Chiesa si sforza di annunciare hanno una sorta di timore: sembra che davanti a tanta liquidità l’unico riferimento solido sia la fede cristiana. C’è del vero in questo. Andando più in profondità, dobbiamo però ricordare che l’amore scaccia la paura, come dice la Parola di Dio. È il primato della carità da cui il credente si sente toccato e trasformato, l’amore che si può realizzare tra gli uomini a partire dall’amore di Dio: si pensi alle forme di volontariato e di comunione fraterna dentro la galassia Chiesa. Questo ci fa capire che c’è un nocciolo duro ecclesiale dove non c’è paura, non perché non ci siano motivi di apprensione e di inquietudine, ma perché c’è una fiducia più profonda in un incontro che cambia la vita, quello col Signore Gesù. Anche fra i non credenti ci sono tantissimi cercatori di Dio che guardano alla Chiesa non con paura, ma con un sentimento di ricerca e a volte di simpatia. Le semplificazioni colgono solo un aspetto della complessità, che peraltro è la doppia sfida di cui parla Gesù: ‘Vi mando come pecore in mezzo ai lupi’, ma anche ‘Non preoccupatevi di quello che direte perché sarà lo Spirito Santo a parlare in voi’”. Alcuni sostengono che dopo la primavera del concilio sia tornato il grande freddo tra la Chiesa e il mondo. “In realtà il concilio è più vivo che mai. Per tutta la vita un teologo come Karl Barth aveva detto che non si può diventare cattolici perché nella Chiesa cattolica la Parola di Dio non è al centro. Prima di morire, nel ’68, dichiarò pubblicamente che dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa cristiana in cui la parola di Dio è più ascoltata e venerata è quella cattolica. Di fronte alla miriade di umili testimoni del Vangelo di ogni continente come si fa a non riconoscere la primavera del Concilio? È un mondo che non è nato dal niente, ma dal travaglio sofferto del Concilio e del postconcilio, che ormai è un punto di riferimento acquisito, dalle comunità sparse nelle più piccole contrade dell’Africa e dell’America Latina alle grandi comunità urbane del Nord del mondo. Si pensi a quello che è stato a Milano l’episcopato del cardinal Martini con la centralità della Parola di Dio o il programma della Chiesa italiana sull’evangelizzazione. Tutto questo ormai appartiene al vissuto della grandissima parte dei credenti. In un certo senso, la povertà numerica – che è un dato di fatto – è compensata da una maggiore maturazione: c’è un laicato più adulto e responsabile, sacerdoti e vescovi molto più centrati sul primato della Parola di Dio. Perciò ho una visione molto più ottimistica. Sono anche convinto che la ricezione del concilio è solo ai suoi inizi. Sottolineo la straordinarietà della riforma liturgica: quale realtà al mondo si poteva permettere, pur nella continuità sostanziale, un rinnovamento così radicale e profondo su scala universale? Paradossalmente quel piccolo residuo di intransigenti e nostalgici, comunque una percentuale insignificante, è la riprova che la Chiesa vive una straordinaria stagione di rinnovamento. Anche nella recente vicenda dell’abolizione delle scomuniche ai vescovi lefebvriani da parte di Papa Benedetto XVI è evidente il gesto di carità in favore di una possibile riconciliazione, ma è altrettanto evidente che tale riconciliazione passa attraverso l’accettazione del Vaticano II senza la quale non c’è piena comunione. Lo Spirito non ha smesso di soffiare a Trento e non è andato in pensione!”. Quindi il postconcilio non finisce finché non se ne indice un altro... “Non solo. L’impatto reale e profondo del Concilio tridentino si è andato avvertendo in una stagione che non è stata di decenni, ma di secoli. Dal punto di vista storico, quindi, il Vaticano II è solo ai suoi inizi. E anche quando ci sarà un nuovo Concilio, sarà comunque un momento della straordinaria ricezione del Vaticano II; potrà fare altre scelte di rinnovamento, ma mai rompendo la continuità con ciò che è avvenuto. Per come conosco la Chiesa, prima girando il mondo da teologo e ora vivendo la realtà locale come pastore, dal Vaticano II non si torna indietro e non si tornerà mai. Il Concilio ha prodotto frutti straordinari e continuerà a produrne, ben al di là di quello che oggi possiamo immaginare”. Perciò secondo lei la storia non sta accelerando in modo brutale e non è vero che l’espansione vertiginosa della tecnica e i cambiamenti nel costume spezzano il respiro dei secoli. “Una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell’umanità è stata l’invenzione della stampa che ha portato a vivere nel concreto l’emergere della soggettività critica. Prima il libro era l’auctoritas che si ascoltava da una voce che leggeva dall’alto, poi è diventato un testo che si prende tra le mani, che in qualche modo si può manipolare con sottolineature e punti interrogativi. Da qui è nata una coscienza critica così dirompente rispetto all’ordo medievalis, che la modernità verrà identificata con il primato della soggettività. In tutti i campi: nell’arte con la prospettiva, in musica con l’armonia, in filosofia con il soggetto cartesiano. Quello che sta avvenendo oggi con le scoperte scientifiche e con il Web è in linea con la grande rivoluzione della stampa. Noi non siamo di fronte a un cambiamento epocale nel senso che sta emergendo un mondo mai visto né pensato prima, siamo di fronte piuttosto a un’ulteriore radicalizzazione, consentita dall’evoluzione tecnologica, dell’emergere della soggettività. Se oggi parliamo di una postmodernità, in fondo lo facciamo in riferimento alla modernità. Jean-François Lyotard nel suo delizioso ‘Le postmoderne expliqué aux enfants’ parla di frammentazione: se il classico si definisce in rapporto all’unità, il postmoderno è un mondo di frammenti, dove la pluralità dei soggetti non sempre entra in rete e vive spesso in solitudine. Ma questo in fondo era già avvenuto con la scoperta della stampa. Cos’è la riforma protestante se non mettere la Scrittura, fatta stampare da Lutero, nelle mani dell’interpretazione soggettiva?”. C’è chi sostiene che già siamo oltre l’era del soggetto. “Qui sta l’errore di giudizio. Siamo come nani sulle spalle dei giganti, ma ci dimentichiamo dei giganti nel valutare le cose. Il momento che stiamo vivendo è di sfida enorme, nessuno lo nega, ma rispetto ai cinque secoli che abbiamo vissuto, alle avventure della soggettività, non c’è niente di nuovo sotto il sole. La storia del soggetto dall’epoca moderna in poi è una storia di frammenti e solitudini che cercano ciclicamente di ricompattarsi. L’avventura dell’ideologia moderna non è altro che il tentativo di ricondurre molteplici soggettività in un soggetto unico che le interpreti e le coaguli in un sogno collettivo, il sogno dell’emancipazione – eventualmente in una lotta comune, la lotta di classe. Oggi questo bisogno di trovare forme di convivenza plausibile e umanizzante trova risposte nuove. Si parla di ‘villaggio globale’, che è il tentativo di fare rete in un mondo in frantumi. E la realtà più presente nella rete del villaggio globale è proprio la Chiesa cattolica. Nessuna realtà al mondo è glocal (globale-locale) quanto la Chiesa cattolica: l’appartenenza, il locale, esaltato dall’uso liturgico delle lingue volgari promosso dal Concilio, e l’universale, l’unità esaltata dalla comunione della fede e dal ministero del Papa, la cui voce raggiunge in ogni parte del mondo credenti e non credenti. Nella stagione dei frammenti spesso impazziti e della società liquida abbiamo bisogno di reti di comunione e il cattolicesimo offre a questo pianeta una possibilità di unità nella diversità”. Se l’era della soggettività non è al tramonto, lo schema ragione-fede risulta ancora buono per articolare il discorso tra credenti e non credenti? “Purché lo ripensiamo all’interno di ciò che ho detto. La ragione è lo strumento dell’incontro tra gli uomini di fronte alla tensione tra le solitudini dei frammenti e il bisogno della glocalità. Il Logos è la possibilità reale di comunicazione tra europei, americani, africani, asiatici, latino-americani. Il messaggio di questo Papa apologeta della ragione nello spirito della grande tradizione non solo platonica, ma anche cristiana – il Verbo si è fatto carne –, è una riserva di senso straordinaria contro le solitudini del villaggio globale. Nelle avventure ideologiche della modernità, invece, la ragione si è manifestata come totalizzante e le conseguenze sono state i genocidi, la Shoah, le guerre mondiali. Ci sono però altri modi di intenderla, grazie al cielo, come strumento relativo e non assoluto. Se è vero che la ragione di tutto deve dare ragione, come diceva Aristotele, e tuttavia non può dare ragione di sé, si riconosce infondata e infondabile. Qui si apre lo spazio della fede, vicino a quello che Schelling definiva lo stupore della ragione. La ragione, spinta fino in fondo, fa il suo lavoro di comunicazione dei diversi e dei lontani e consente un incontro su un codice etico fondamentale: la legge naturale. Ma cosa salva la ragione da se stessa? La fede che non è irrazionale, ma metarazionale, apre la ragione a ciò che la trascende e la ridimensiona affinché non sia padrona, ma serva dell’uomo. La fede umanizza la ragione aprendola a ciò che la trascende, mentre la ragione nei confronti della fede è uno stimolo inquietante che la tiene viva, impedendole di diventare un comodo asserto ideologico”. Nella comunicazione pubblica la spartizione dei ruoli tra fede e ragione è diversa e anche qualche teologo la ratifica volentieri: “L’esercizio della ragione è per definizione laico, non ha a che fare con l’obbedienza della fede e il principio di autorità”, ha scritto qualche giorno fa Vito Mancuso su Repubblica. “Rivendicare la laicità della ragione è il caposaldo dell’ideologia, con i risultati tragici che abbiamo visto. Si dice laicità, ma si intende autonomia. Nelle sue lezioni sull’etica tenute all’Università di Monaco Romano Guardini, uno dei pochi teologi che alla fine del nazismo ha potuto parlare a testa alta – fu ispiratore della Rosa Bianca –, spiegò che quella tragedia poté accadere in forza di una laicità della ragione che alla fine si rivelò come il suo tarlo corrosivo. Se la ragione fosse esclusivamente laica avrebbero ragione tutte le ideologie, compresi i loro esiti nichilistici e aberranti. Invece la ragione ha bisogno dell’elemento religioso, di un legame che in qualche modo la limiti. Mi domando: tutto ciò che è scientificamente possibile è anche eticamente legittimo? Chi sostiene che la ragione è laica e basta deve rispondere sì. E allora perché non procedere alla clonazione o usare la bomba atomica? È necessario riconoscere il limite oggettivo che nasce dall’ethos e quindi dal riconoscimento di una verità sovrana e trascendente a cui obbedire. In questo senso, l’obbedienza è la forma più alta di libertà”. Invece si parla molto di una Chiesa del no che pretende un’adesione cieca ai propri dogmi immutabili. “C’è troppa fretta nel pensare, si vuole arrivare troppo presto a una conclusione. Io non critico chi pensa, ma chi pensa troppo poco. La ragione è liberante quando resta aperta sul mistero, quando la sua autolimitazione diventa riconoscimento di un’ulteriorità che la supera. Ma per arrivare a questo ci vuole meno fretta e più modestia”. Chiesa dogmatica che sa dire solo no è uno slogan di vasto consumo... “Ilario di Poitiers diceva che il dogma nasce da un’urgenza della carità. Non paralizza gli uomini, ma li aiuta a essere liberi fino in fondo, cioè liberi da se stessi. Il dogma ci ricorda che non siamo tutto, che la verità ci trascende; sola ad essa dobbiamo fiducia e obbedienza e non alla nostra ragione o al Führer che la rappresenta, come dichiarò Barth nel manifesto della Confessione di Barmen contro il nazismo. La ragione è tale quando ascolta e si apre al rischio della fede. E il dogma non è un incantesimo che soggioga, ma una sorgente di libertà”. Dentro il mondo cattolico c’è chi ritiene inadeguato un modello di razionalità calato dall’alto, sia pure in forme memorabili come il discorso di Ratisbona, e propone il modello della “fedeltà dialettica” come garanzia del confronto ecclesiale secondo ragione.
“La modernità ci ha fornito diversi modelli di razionalità. Ne cito due emblematici, quello di Vico e quello di Hegel. La razionalità vichiana è aperta, definisce la scienza nuova come la teologia civile e ragionata della provvidenza divina e riconosce nella provvidenza l’eterogenesi dei fini. Invece, nella ‘Scienza della logica’ Hegel dice che la ragione, essendo giunta alla piena luminosità della coscienza, può ormai riposare nel sereno mondo dei fiori; una metafora che esclude ogni elemento di oscurità, qualunque fiore nero. Nell’ideologia la ragione diventa la forza tragica che elimina l’altro e nega tutto ciò che resiste. Quindi la testa del controrivoluzionario può essere tagliata perché non funziona. Si tratta dunque di scegliere tra una ragione aperta e una ragione totalizzante. I figli di una ragione minore mettono semplicemente il segno meno alla ragione trionfante e quello che era il tutto della ragione assoluta ideologica diventa il nulla della ragione nichilistica e debolistica. Non è questa la ragione che salva l’uomo, ma lo è la ragione di chi ama, la ragione della scienza nuova”. A proposito di scienza, si rimprovera al magistero ecclesiastico un tendenziale restringimento di campo: il Papa e i vescovi intervengono solo sui temi bioetici, fino a scadere nel biologismo, mentre trascurano altre urgenze sociali. “Che ci sia qualcuno che accentua alcuni aspetti rispetto ad altri è un dato di fatto. La Chiesa nella sua varietà è fatta di anime diverse, ma secondo il principio di cattolicità se ti batti per la difesa della vita in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, con lo stesso vigore devi batterti per il no alla guerra. La vis polemica può portare a sottolineare un aspetto, ma la comunione cattolica ricorda che ci sono tutti gli altri. Il magistero della Chiesa è più ricco delle singole prese di posizione con cui viene identificato. E questo un teologo dovrebbe sempre ricordarlo. Se gli manca il senso della ‘complexio catholica’, come diceva Guardini, è un avventuriero dell’intelligenza che vive sull’onda del successo momentaneo. Noi siamo cattolici. Quindi dobbiamo essere più razionali, esperti di una ragione aperta; più credenti, impegnati in una fede inquieta; più umani, perché più vicini all’umanità che oggi ha bisogno di superare le sue solitudini e i suoi frammenti. Oggi la parola che dice meglio la ‘glocalizzazione’ è ‘cattolicità’”.