Mercoledì, 5 Agosto 2009 Folklore contemporaneo

Il serpente

simbolo dei mali umani

di Lia Giancristofaro

Il serpente, animale selvatico e talvolta velenoso, ha avuto enorme fortuna come simbolo, con significati sia positivi (la sua metaforica rinascita dopo il letargo è stata interpretata come segno di immortalità e completezza) e sia negativi; questi ultimi sono prevalenti.
La Bibbia, infatti, rappresenta il Diavolo tentatore sotto le vesti del rettile, e tale negatività ha finito col condizionare nell’intero Occidente la percezione del serpente, divenuto principale icona del male e della falsità umana. Perciò questo animale (addirittura in via di estinzione) nel nostro immaginario collettivo rappresenta un pericolo gravissimo, tanto che non si esita ad ucciderlo non appena se ne presenta l’occasione. La persistenza di questa paura morbosa nei confronti del serpente origina, in taluni soggetti, una vera e propria fobia generante condotte di evitamento (ad esempio, non camminare nell'erba alta o in qualsiasi zona in cui questi animali possano nascondersi) perfino nelle regioni dove la presenza di ofidi è improbabile. Insomma, per la nostra società il serpente sembra un vero e proprio capro espiatorio, mentre non si percepiscono come pericoli da evitare i terribili killer di cui la vita quotidiana è pervasa (si pensi al fumo, all’inquinamento, all’obesità, alla violenza domestica e agli incidenti stradali). Secondo i canoni dell’irrazionalismo più smaccato, si colpevolizza l’innocente al fine di assolvere il colpevole.
In Abruzzo esiste, però, un singolare rituale religioso che, i primi di maggio, consente ai suoi partecipanti di accettare i serpenti come creature necessarie all’equilibrio della natura, ridimensionandone la pericolosità. Si tratta della festa di s. Domenico dei serpari, che ogni anno porta fino a 20 mila visitatori nell’antico paesello arroccato sui monti che circondano la Marsica. Il valore salvifico di Cocullo fu evidenziato dall’antropologo Alfonso M. di Nola quando, nel 1980, sulle testate internazionali scrisse che, nell’anonimato della società del profitto, a Cocullo si può ritrovare l’armonia con la natura e le persone: qui, infatti, in mezzo ai serpenti consacrati al Santo, è ancora possibile stringere la mano a un uomo, ritrovando una speranza all’ombra di un piccolo campanile, rassicurante ancoraggio esistenziale per ogni comunità dispersa dalle migrazioni e dalle altre violenze reali attraverso cui si dispiega la storia.
Il giorno della festa, decine di innocue bisce adornano, aggrovigliate, la statua di S. Domenico Abate e il collo dei serpari, ossia i paesani che custodiscono questi animaletti, che il mattino dopo torneranno liberi nelle campagne. Prima e dopo la processione, le bisce ci si diverte a toccarle, con un brivido, a mettersele addosso, sperimentando che, contrariamente a quanto sostengono le dicerie, i rettili non sono affatto viscidi, e che a fare ribrezzo è solo ciò che l’animale rappresenta, non ciò che esso realmente è. Inoltre, non si può fare di tutt’erba un fascio, visto che moltissime specie sono prive di veleno e, appena uscite dal letargo, sono docili. La gente, nonostante le telecamere e gli obiettivi fotografici delle testate più prestigiose (Rai, Mediaset, BBC, National Geographic), resta protagonista del rito: ognuno vive l’evento in modo diretto e personale, per cui l’influenza dei media, che ogni anno intervengono, potenzia l’esperienza straordinaria senza rovinare l’autenticità individuale, come invece si riscontra in rituali dove i partecipanti accentuano i loro comportamenti o addirittura li falsano.
Attraverso le serpi, la dimensione sacra induce la riscoperta di sé stessi, e grande è la commozione nel riconoscere la perfezione della natura nell’animale più demonizzato. Questo rituale, sviluppatosi nel Medioevo e arrivato fino ai nostri giorni, non vuole essere né un fatto commerciale, né un feticcio turistico, ma una manifestazione positiva dell’essere, una immersione commossa nella natura umana che, il giorno della festa di s. Domenico dei serpari, sembra vergognarsi delle sue debolezze e dei suoi comportamenti più assurdi, tornando a confrontarsi in modo pacifico con la natura come insegnava s. Francesco da Assisi col suo immortale Cantico delle Creature.