Mercoledì, 25 Marzo 2015 Nazionali

Intervista a Mons. Bruno Forte «Napoli capitale delle periferie dell’uomo»

Dal Papa una scelta chiara, qui la sua prima visita in una grande città europea

Intervista di Donatella Trotta

 

Un Papa che sa parlare «alle periferie dell’uomo» e «dell’umanità di Dio». Lanciando
«messaggi forti non soltanto a Napoli, ma all’intero Mezzogiorno e all’Italia tutta, in uno scenario
di interdipendenza geopolitica in cui il Paese gioca il suo ruolo di partner europeo». Monsignor
Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto, non ha dubbi: il passaggio di Papa
Francesco a Napoli è destinato a lasciare un segno. Ma quali frutti potrà dare, dipenderà dalla
responsabilità di ciascuno: credenti e non credenti. Perché, come suggerisce un detto chassidico
sulla fede, «Dio abita dove lo si lascia entrare». Monsignor Forte lo sa bene, nel suo ruolo di
teologo, filosofo, studioso napoletano di respiro internazionale, già docente di teologia dogmatica
alla Pontificia Facoltà teologica dell’Italia meridionale, dal 2004 radicato nella diocesi abruzzese e
autore di numerosi libri tradotti in tutto il mondo (l’ultimo, «Lettere dalla collina», Mondadori, è
una intensa raccolta di riflessioni sulla fede e l’esperienza di Dio), oltre ad essere impegnato in
molteplici ruoli di alta responsabilità in seno alla Chiesa. Dove è stato nominato proprio da Papa
Francesco Segretario Speciale del Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia.
Qual è il senso profondo lasciato da questa visita?
«La sua valenza simbolica: è significativo che per la sua prima visita pastorale fuori di
Roma, in una grande città italiana ed europea, Papa Francesco abbia scelto Napoli: metropoli di
straordinaria ricchezza storica, spirituale, culturale, ma piagata da problemi sociali come la
mancanza di lavoro per i giovani. Punto, questo, sul quale il Pontefice ha insistito molto. E non con
appelli vaghi o buonisti, bensì ancorati alla concretezza dei dati e del tema della giustizia sociale:
che non è solo un discorso di denuncia dell’ingiustizia e delle sperequazioni, ma un richiamo al
dettato costituzionale oltre che al nesso tra disoccupazione e ingiustizia, che depriva di futuro i più
poveri, e i più giovani. “Non lasciatevi rubare la speranza” è un monito da leggere in modo molto
serio, perché rinvia alla necessità di fare riforme coraggiose e radicali. Il Papa, attraverso Napoli, ha
voluto parlare all’Italia».
A partire da Scampia, dove sono stati lanciati i messaggi più incisivi e, per certi versi,
“politici”: è d’accordo?
«Il suo appello a una “buona politica” è conseguente alla condanna della vera causa delle
ferite di Napoli e del Paese: la corruzione. Ovvero, lo sperpero di soldi dei cittadini spesi per
l’interesse di pochi. Per questo il Papa ha usato un verbo rafforzativo del disgusto che prova, e che
questa società malata suscita: la corruzione, ha ripetuto, “spuzza”. Qualcuno ha pensato a un
neologismo: invece il verbo italiano esiste ed è stato usato fino al tardo Medioevo, confluendo nel
dialetto piemontese, lo stesso che parlava a Bergoglio bambino la sua nonna Rosa. La scelta di
questa parola per la condanna senza appello della corruzione è stata anche una memoria delle sue
origini».
Di qui anche il richiamo al diritto di cittadinanza dei migranti scritto, ha detto il Papa, «nella
nostra carne», perché «siamo tutti migranti, nel cammino della vita»?
«Questa è un’altra espressione che aiuta a cogliere la novità e la profondità di questo Papa
venuto “quasi dalla fine del mondo”, trasmesse non solo ai credenti, ma a tutta la famiglia umana:
l’uscita della Chiesa dall’autoreferenzialità per una missionarietà nelle periferie geografiche ed
esistenziali; l’idea di una Chiesa povera e per i poveri che si contrappone all’iniquità di una cultura
e un’economia dello “scarto”; il segno rivoluzionario del Vangelo della misericordia contrapposto
alla “globalizzazione dell’indifferenza”. Papa Francesco mette sempre al centro della sua attenzione
le persone: ma non con una dottrina astratta bensì nell’incontro e nel dialogo. Perciò a Napoli ha più
volte messo da parte i discorsi scritti preferendo ricevere domande e rispondere a braccio: segno di
una comunicazione e di un magistero che non si cala dall’alto ma ha bisogno dell’altro, e
interagisce con le attese e le domande dell’interlocutore, anche sulle grandi verità della fede
cristiana che risponde, e corrisponde, a un’attesa e a una domanda».
Quali?
«Quelle dell’incontro tra il cuore inquieto dell’uomo e la verità del Cristo. Ulteriore segno
simbolico forte di questa visita pastorale: che evidenzia l’umanità di Dio valorizzando l’umano e la
sua dignità. E il cristianesimo non come religione della salvezza dalla storia, ma della salvezza della
storia».
Un ulteriore esempio?
«Il valore comunicativo della verità nello stile comunicativo di Francesco: in ebraico verità è
‘emet, fedeltà , che si coglie sempre in un rapporto, in un tessuto di relazione, accoglienza e ascolto
reciproci. Come quelli messi in atto dal Papa a Napoli nei suoi incontri. Un messaggio molto bello
di interazione: anche il successore di Pietro ha bisogno degli uomini come interlocutori.
Esponendosi nelle dense tappe del suo viaggio a un fuoco di fila di domande e di attese, il Papa si è
così messo in gioco su una grande varietà di sfide possibili. Che solo quando c’è un centro
unificante si è in grado di sostenere, dando luce. E il suo centro è il Vangelo, la carità e la
misericordia del Cristo riverberati anche dalla sobrietà e semplicità del suo stile di vita. È un Papa
evangelico nel senso più forte del termine: privilegia gli ultimi, primi agli occhi di Dio».
Per questo ha declinato la speranza come «tempo del riscatto»?
«È un monito forte per Napoli, che dall’Illuminismo al dopoguerra ha già vissuto questa
dinamica: la speranza non solo come attesa di ciò che verrà, ma presenza di qualcosa che già esiste,
e deve iniziare. Napoli, ha voluto dire il Papa, ha una enorme ricchezza e potenzialità che vanno
sviluppate. Senza abbattersi in sterili pessimismi, né attendendosi aiuti dall’esterno. Proprio come
una donna incinta, che il tedesco connota con un’espressione potente: non “in attesa”, ma “in der
Hoffnung”, nella speranza. Di dare alla luce un nuovo inizio, che è già in noi».