Domenica, 10 Maggio 2015 Nazionali

Il Paese che non ama le mamme

La maternità si rivela ancora una scelta difficile

di Paola Tosti

 

Nel gennaio del 1963 in Italia entrò in vigore la legge numero 7 che vietava il licenziamento delle lavoratrici che si sposavano. Si trattava di un naturale corollario all’articolo 37 della Costituzione i cui principi fino a quel momento erano rimasti lettera morta. Con la legge 7 venne definitivamente abrogata la norma fascista in base alla quale il matrimonio e di conseguenza la maternità divenivano un giusta causa di licenziamento per le donne che lavoravano.

Ma a distanza di 53 anni da quella legge che sembrava la prima di una lunga serie di conquiste sociali tutto in realtà si è rilevato un nulla di fatto. Le donne continuano ancora oggi a subire sul posto di lavoro le conseguenze di una scelta che dovrebbe essere vissuta come una tappa fondamentale della vita ma che troppo spesso si trasforma in una decisione dolorosa. Lo strumento delle “dimissioni in bianco” e del “mobbing” continuano ad essere i congegni vessatori messi in atto nei confronti delle lavoratrici che si accingono a diventare madri. Si stima che almeno 18 mila siano le donne che ogni anno sono costrette a firmare le proprie dimissioni all’atto dell’assunzione, un foglio senza data con cui il datore di lavoro a propria discrezione può lasciare a casa il dipendente e vittime di questa prassi sono, nel 90% dei casi, le lavoratrici divenute madri. Situazioni allarmanti vengono denunciate anche dall’Osservatorio Nazionale Mobbing che stima come negli ultimi cinque anni si sia registrato un aumento del 30% dei casi di mobbing per maternità, 800mila sono le donne che negli ultimi 2 anni sono state licenziate o costrette a dimettersi e 350mila le lavoratrici che subiscono discriminazioni o mobbing a causa della loro gravidanza. La casistica è pressoché uniforme in tutta la Penisola: il 21% dei casi riguarda le regioni del Sud, il 20% quelle del Nord Ovest e il 18% il Nord Est. Nella realtà la situazione però è molto più grave in quanto questi numeri si riferiscono ai soli casi denunciati; infatti si stima che le vessazioni subite dalle lavoratrici a causa della loro maternità siano molto di più e che spesso queste rinuncino a far valere i propri diritti scegliendo così semplicemente il tacito licenziamento.

Lo scenario quindi attesta come in Italia la normale condizione femminile di maternità sia ancora percepita come un punto di debolezza della donna a cui il legislatore non riesce a dare adeguate soluzioni e protezione. E, mentre l’Istat continua a denunciare il drastico calo delle nascite nel Paese al punto in cui oggi si è arrivati ad uno dei livelli più bassi dall’Unità d’Italia, cresce il divario  rispetto alla media degli altri Paesi europei, dove leggi e sostegni sociali a favore delle famiglie rendono di fatto più agevole mettere al mondo un figlio.

Non resta altro che sperare che chi pone una donna difronte a queste situazioni discriminatorie si ricordi che è venuto al mondo perché una mamma lo ha partorito.