1 giugno 2025, i cento anni della giornata internazionale del bambino
Domenica, 1 Giugno 2025 Nazionali
Un anniversario molto importante in un momento così delicato
A dir il vero le giornate internazionali dedicate ai bambini sono due: la prima è quella del 1° giugno, istituita nel 1925 durante la Conferenza Mondiale di Ginevra sui diritti dell’infanzia; la seconda invece ricorre il 20 novembre, venne dichiarata nel 1954 dall’ONU e dall’Unicef. Entrambe le ricorrenze sono finalizzate a ricordare agli adulti che i fanciulli sono il nostro futuro e che è nostra responsabilità garantire loro diritti, salute e benessere.
Dal boom allo sboom delle nascite
Cento anni fa, vale a dire nel 1925, in Italia nacquero 1.102.000 bambini, con un tasso di fecondità (Tdf) di 3,72 figli per ogni donna. Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, le nascite cominciarono a risalire dando luogo alla generazione boomers. Così, se nel 1954 da noi erano nati 870.689 bambini con un Tdf di 2,35 figli per ogni donna, spianando la strada al baby boom degli anni successivi fino a toccare il picco nel 1964 con 1.016.120 nascite con un Tdf che sarebbe arrivato a 2,70 figli, nel 2022 il Belpaese è sceso per la prima volta dall’Unità d’Italia sotto le 400.000 unità, più precisamente 393.333 (1,25 Tdf). Il calo è continuato nel 2023 con 379.890 nati (Tdf 1,20) e non si è arrestato nel 2024 con appena 370.000 nuovi nati (Tdf 1,18), si è cioè assistito ad un’ulteriore contrazione del 2,6% rispetto all’anno precedente. Insomma nel giro di cento anni (ma sono appena 60 anni se si considera il record del 1964) in Italia nascono circa 700.000 bambini in meno all’anno, cioè 1/3 dei nati nel 1925 e 1964!
Le coppie childfree e thinker
Gli ultimi dati Istat disponibili ci dicono che in Italia il 45,4% delle donne di età compresa tra 18 e 49 anni è senza figli, e che la gran parte di queste si dichiarano Childfree, letteralmente liberi dai bambini, perché la maternità non rientra nei loro progetti di vita. Come se non bastasse, negli Stati Uniti è nata una “immaternità” consapevole e scientificamente calcolata. Parliamo del movimento Thinker, acronimo che sta per Two Healthy Incomes No Kids Early Retirement, letteralmente «due redditi sani, niente bambini, pensionamento anticipato», quindi coppie senza figli che decidono di lasciare il lavoro anticipatamente per godersi la vita. E’ stato infatti calcolato che un figlio fino ai 18 anni, quindi senza le spese universitarie, assorbe 180.000 dollari che, nel caso dei thinker, rimarrebbero nella loro totale disponibilità per viaggiare, andare spesso al ristorante, comprare vestiti alla moda, insomma per fare la bella vita.
I record di denatalità
In realtà la crisi delle cicogne investe solo poche nazioni al mondo, infatti la media globale di figli per ogni donna è 2,3, esattamente il doppio di quella italiana, anche se siamo lontani dai 3,2 figli per ogni donna che si registrava nel 1990. Certamente a guidare la classifica della prolificità sono i Paesi del Terzo mondo, cioè Niger, Somalia e Ciad ma anche la emergente India. Al contrario i Paesi meno prolifici sono Corea del Sud, Taiwan, Ucraina e appunto l’ Italia, così come un calo tendenziale si registra in tutto il mondo occidentale. Per avere un’idea di quanto la società italiana sia invecchiata basti un solo dato: nel nostro Paese l’età media della popolazione è di 48 anni, la peggiore d’Europa, in Niger è di 15,2 anni!! Un dato che lo rende il paese più giovane al mondo e le loro donne le più prolifiche con un Tdf di 6,53 figli.
Le nefaste conseguenze dell’invecchiamento della popolazione
Il paese più vecchio al mondo è il Giappone dove il 29,1% degli abitanti ha 65 anni o più. Al secondo posto c’è l’Italia con il 24,5% di ultra 65enni e al terzo posto la Finlandia, con il 23,6%.
Una popolazione invecchiata fa saltare il sistema sanitario e previdenziale, non è possibile avere più pensionati che lavoratori attivi, più persone bisognose di farmaci che giovani in salute, ecco perché l’età pensionabile è destinata a crescere sensibilmente di pari passo con l’aumento delle aspettative di vita e le spese per la sanità ad aumentare fino a diventare insostenibili per lo Stato. A ciò si deve aggiungere che pochi bambini significano meno posti di lavoro nelle scuole e nelle fabbriche di prodotti per l’infanzia prima (pannolini, giocattoli, vestitini, ecc.) e per i giovani dopo (motorini,vestiti, auto, ecc.). Una denatalità così pronunciata implicherà anche una mancanza di manodopera nel mondo del lavoro. Insomma la crisi delle cicogne ha pesanti implicazioni sul piano sociale ed economico.
Colpa delle donne in carriera?
Certamente, come abbiamo visto a proposito dei childfree e thinker, esiste una componente di egoismo ed edonismo non soltanto nella donna ma nella coppia, così come alcuni lavori declinati al femminile (carriera militare o manageriale) difficilmente si conciliano con una maternità prolifica, ma è anche vero che in Italia il fenomeno denatalità si lega soprattutto alla mancanza di asili nido e di sostegni seri alla famiglia. A riprova di ciò vi sono paesi occidentali, dunque paesi dove la donna gode almeno formalmente degli stessi diritti dell’uomo, in cui il tasso di fecondità è di 3,00 figli (Israele), oppure di 1,84 figli in Francia, 1,77 in Belgio o 1,71 negli Stati Uniti. Vuol dire che in questi Stati nascono circa il 70% in più dei bambini rispetto al Belpaese. Infatti in Francia, nazione più prolifica d’Europa, sono nati nel 2023 circa 678.000 bambini, praticamente 300.000 in più rispetto all’Italia, un dato che, per vederlo nel nostro Paese, occorre tornare indietro fino al 1979, cioè a circa mezzo secolo fa.
E’ dunque indispensabile una politica di sostegno alla natalità decisa e determinata che vada oltre il palliativo di bonus bebè che ogni tanto riaffiorano nei diversi governi che si sono succeduti negli ultimi venti anni ma che non sono stati affatto in grado di invertire il trend della denatalità.
O le vere cause dello “sboom” sono altre?
Ci sono altri due aspetti da considerare, forse i più importanti: la precarizzazione del lavoro ed i bassi salari. Il fiorire dei contratti a breve e brevissimo termine, i pericoli sempre imminenti di chiusure e delocalizzazioni, insieme a salari sempre più bassi, rendono difficile una duratura indipendenza economica. Sono infatti sempre più i giovani che sono costretti ad appoggiarsi alla famiglia d’origine per sopravvivere nei periodi di disoccupazione. Giovani di questo tipo possono pensare di andare ad abitare da soli sostenendo tutte le relative spese o di mettere su famiglia con il costante timore di perdere il lavoro? Oppure conservarlo accettando stipendi da fame che condannano ad una misera sopravvivenza?
Laura Del Casale