Domenica, 14 Aprile 2013 Editoriali

Dialogo intorno alla nostra lingua

C’è ancora spazio per la cultura?


È molto più di un trattato di retorica, molto più di uno studio sulle lingue e sui dialetti. Adesso, a distanza di tanti anni (se si preferisce, di qualche decennio), capisco cosa volesse significare la mia insegnante di letteratura italiana: “Anche se Dante non avesse scritto la Divina Commedia, meriterebbe un posto d’onore tra i classici di ogni tempo”. Per inciso, la docente dovrebbe apprezzare, se non altro, la mia attenzione prestata in aula, anche se, magari, davo da crederle altrimenti. La lettura del De vulgari eloquentia mi è stata consigliata dall’amico Nicolangelo D’Adamo, per me e per quelli che lo conoscono, “il Preside”, antonomasia che, accompagnata all’uso del “tu”, sta a significare estrema familiarità, da un lato, e sicuro punto di riferimento nei piacevoli discorsi sulla nostra nobilissima lingua e su tanto altro ancora. L’approccio al trattato dantesco mi è stato facilitato da un appunto che avevo chiesto allo stesso prof. D’Adamo in merito ad un tema impegnativo e, purtroppo, in questa Italia distratta e insensibile, del tutto fuori moda: se il sommo poeta possa essere considerato, e per quale ragione, il precursore dell’unità d’Italia. La lettura dell’opera (in una scala gerarchica, considerata per forza di cose “minore”: sembra una bestemmia) mi ha aperto davanti agli occhi un universo fino a quel momento sconosciuto. Parlo di me, ovviamente. Il discorso fluisce senza intoppi, seguendo una logica che sostiene lo studio dall’inizio alla fine, mentre i continui rimandi alle Sacre Scritture, alla teologia e ad Aristotele, lungi dall’appesantire, vivacizzano i contenuti e l’esposizione. Sembra, sotto qualche riguardo, di leggere La Repubblica di Platone, con la sua brillante capacità armonica, ineguagliabile, dove trovi passi di filosofia pura, disquisizioni sulla migliore metrica da utilizzarsi nelle liriche, dottrina dello Stato, definizione della teoria della metempsicosi. Il tutto in un ferreo quadro logico. Così padre Dante, che nel De vulgari eloquentia spazia dall’elenco dei dialetti italiani (ne censisce, dopo averli sfrondati da quelli minori, quattordici) alla lingua parlata da Adamo (l’ebraico), dalla armonia intrinseca alla singola stanza alla storia degli indoeuropei e delle loro parlate. Lo fa da par suo, senza mai perdere la bussola e senza mai voler fare sfoggio di cultura. Per davvero, è proprio degli uomini colti parlare e scrivere in modo piano ed accessibile. Currenti calamo (l’opera è incompiuta), l’autore incappa in qualche svista, come, ad esempio, nel fatto di ignorare l’ottonario che, inutilizzato dagli Stilnovisti, era stato ampiamente adoperato dai loro predecessori. Al di là di questo, eccoti la definizione di volgare in generale, quella lingua che nutricem imitantes accipimus, quella parlata che ci è propria in quanto assimilata assieme al latte materno, eccoti, soprattutto, quella esaltazione del volgare italiano, quell’idioma definito, in un significativo contrasto terminologico, come “illustre”, quale germinazione di una lingua e di una cultura, il latino e la Romanità, che Dante avverte come vive. Eppure il volgare si emancipa dalla lingua dei padri e si pone, nel potente lavoro dantesco, come risultato, non costruito artificialmente a tavolino, ma attinto dalle varie parlate italiche (quanti elogi per il volgare siciliano). Con un’opera scritta in latino (parere strettamente personale: il latino di Dante rivaleggia con quello di Cicerone, perlomeno con quello di Gaio) il poeta fiorentino ci ha consegnato una lingua splendida, una lingua che è causa ed effetto insieme di una unità. Scevro da imbecillità leghiste, vergogne della nostra epoca, non del Medioevo, che ci ostiniamo a considerare un’epoca buia, il Nostro riesce a guardare alla lontana Trinacria, all’Apulia (nella toponomastica del tempo ci siamo dentro anche noi, noi Vastesi), alle varie realtà italiane, compresa la distinzione dialettale tra Borgo San Felice e Strada Maggiore, due quartieri di Bologna (a proposito di Vasto, ci ricorda una situazione similare, vero?), con lo sguardo dell’uomo di cultura che si sente a suo agio per ogni dove, accogliendo e valorizzando quello che di meglio offrivano le variegate contrade della Penisola. Nasce così l’italiano, prima dell’Italia, almeno come realtà statuale, si sviluppa in ogni caso quell’idea di Italia, già molto antica, sostenuta da una robusta connotazione culturale. Il contrario del mondo d’oggi, dove trionfano gli anacoluti e l’ignoranza linguistica.    
Giacinto Zappacosta